Critica a cura di Claudio Strinati

Roberto Bosco ha maturato, negli ultimi quattro/cinque anni, una forma d’arte particolare consistente nella rappresentazione di  un flusso continuo di folla che sembra venire verso il pittore. Bosco rappresenta questo movimento di individui, ignari gli uni degli altri, come in una ripresa cinematografica in cui la regola da rispettare è quella di generare la sensazione di vita che scorre davanti ai nostri occhi, in continuo movimento ma minacciata da una latente e inesorabile pulsione di morte e annichilimento. Una specie di Vanitas Vanitatum. Di questo tipo di tema Bosco ha dato varie versioni, con soggetti diversi, come l’ incontro al Bar, i passeggeri che sciamano nella stazione ferroviaria, le donne in attesa, i muti colloqui quando si sottoscrive un accordo o una transazione. Alcuni quadri puntano con maggiore cura alla descrizione di un ambiente sociale e di tipologie di individui inquadrabili in un preciso luogo e una specifica situazione. Altri presentano figure isolate o distratte di cui a mala pena può intuirsi il rovello interiore.  Ma è evidente, in ogni caso, come nella percezione del pittore e nella nostra che guardiamo le opere, risulti comunque evidente l’ idea del “fatale andare” degli uomini rigirati in continuazione dalla sorte che li rende di volta in volta inconsapevoli o troppo consapevoli del destino. Gente che va e che viene, ora descritta con l’ esplicito realismo che ci riporta a un clima culturale memore persino delle grandi avventure intellettuali del secondo dopoguerra negli anni cinquanta; ora con il simbolismo arcano di remota origine francese, addirittura dei primordi del secolo ventesimo, che tende a disintegrare l’ immagine fino al limite estremo della sparizione. Ma le motivazioni profonde di tale andirivieni della forma le ha adombrate l’ artista stesso in un testo autobiografico quando, rivendicando la propria specificità in aperto conflitto con alcune tendenze del contemporaneo da lui avvertite come falsanti e mortificanti, afferma perentoriamente la volontà di dire, attraverso l’ esercizio della pittura, la sua “gioia di appartenere al mondo”.

Bosco ha una lunga storia alle spalle fatta di continua ricerca di riferimenti che egli avverte in sintonia con il suo orizzonte creativo, una ricerca che lo ha reso come onnivoro ancorchè il suo stile sia ben individuato e personale fin dall’ inizio e resti poi rigorosamente autonomo e indipendente. Sembra che per un certo periodo Bosco abbia lavorato come “a paragone” con tutta una serie di maestri del passato, confrontandosi, talvolta approvando entusiasta, talaltra quasi ironizzando. Passa al vaglio tutta la grande pittura francese tra Otto e Novecento e sembra in certe opere che evochi ostentatamente Bonnard, Degas, Renoir, Monet. Ma poi si ha la sensazione di vedere in lui una attenzione che di colpo si sposta sulla eroica scuola romana degli anni trenta e risentire suggestioni di Mafai e Scipione, nel momento stesso in cui è altrettanto evidente come nel suo immaginaro si incunei l’ affascinante metafisica americana di un Edward Hopper o di un Ben Shahn. A ben vedere la cultura figurativa di Bosco scaturisce da un continuo transito tra mondo francese e mondo americano piegati entrambi dentro la severa struttura formale di un artista che è italianissimo nel suo aderire a una sorta di ideale rinascimentale di equilibrio e compostezza, tale da annullare ogni altro influsso eventuale. E’ come se Bosco rivivesse in sé quell’ asse Parigi-New York che effettivamente nel corso del Novecento ha costituito una delle vie di comunicazione e scambio più efficaci di tutta la storia dell’ arte occidentale. Bosco abita in questa via e appartiene a questo mondo.

Bosco ha avuto, così, come due pennelli, uno preciso e accurato, l’ altro sfuocato e tremolante che compie la stessa ricognizione del primo ma con uno stile tendente alla sparizione, al riassorbimento delle immagini nell’ indistinto. Con questo metodo Bosco ha creato, specie negli ultimi anni, una vera e propria epopea figurativa, mista di elegia e di rimpianto. Ne scaturisce una significativa “serie”  dove ogni tassello si congiunge naturalmente con l’ altro, creandosi un racconto per immagini la cui trama, però, resta sospesa e forse inattingibile. Da un lato Bosco potrebbe essere interpretato come un progettista che razionalmente pianifica una struttura figurativa complessa e interconnessa; dall’ altro, però, sembra attingere nel punto culminante del suo percorso una sorta di poetica del silenzio e della malinconia.

Chi osserva i suoi lavori può avere la sensazione che al centro dell’ interesse dell’artista vi sia quell’ abbandono al “fatale andare” gravato da un mistero che sovrasta tutte le cose. Ma proprio questa sensazione predispone nel modo migliore a intendere al meglio un’ arte pensosa e severa che manifesta bene la personalità spiccata di un acuto indagatore del Reale, vigile e attento mentre osserva quella soglia di attesa sulla quale si può riuscire a vedere stagliarsi l’ esatto profilo della nostra stessa sensibilità.

 Claudio Strinati

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