Taglio Critico – Prof. Paolo Levi “Curatore della mostra” al Today Art Museum of Beijing China Maggio 2012

Prima di addentrarmi nell’analisi storica e critica su ciò che caratterizza la ricerca  di Roberto Bosco – sapiente  erede della poetica del realismo esistenziale in auge negli anni Settanta del secolo scorso – desidero iniziare con un preambolo necessario per meglio  affrontare questo corpus di opere, che denunciano attraverso un amaro percorso di raffigurazioni, la solitudine del nostro vivere oggi.

Da molto tempo e da più parti si sente profetizzare la morte della pittura e quindi dell’arte, sostituita da mezzi espressivi  più idonei agli interessi consumistici del mondo contemporaneo, più propenso a ricevere  messaggi concettuali e sovente dissacranti tramite installazioni, video, e utilizzo di materiali insoliti, come stracci, vetri, legni, pietre, assemblati  per una lettura di complessa decodificazione. Non sono, né pretendono di esserlo, lavori di espressività poetica e di intuizione contenutistica, bensì fenomeni collegabili solo ed esclusivamente alla filosofia, ossia a una disciplina teorica che nulla ha da spartire con l’essenza poetica dell’arte. La pittura, la scultura plasmata o sbozzata, la manualità, sono dunque destinate a dissolversi, a morire nella tecnologia, nell’azione autoreferenziale, nella sperimentazione che reca in sé irrimediabili negazioni della bellezza, dell’armonia, dell’equilibrio e della percezione visiva?

Queste sperimentazioni concettuali sono, in apparenza, vincenti sulla attuale scena contemporanea dei musei, del mercato, della critica nazionale ed internazionale. Sono rappresentate da prodotti che riflettono gli aspetti più inquietanti della società contemporanea occidentale, mentre i frutti dello spiritualità, come l’arte e la poesia, sembrano fuori moda in questi tempi oscuri.

L’arte, a mio avviso, è sempre e solo un processo spirituale creativo, frutto di un’intuizione interiore che si tramuta in forma e in colore. L’artista, in questo contesto,  è soggetto creativo solitario, mentre l’attuale operatore sperimentale è oggetto di un’operazione di marketing dove sono coinvolti, in un gioco delle parti, più soggetti con ruoli da comprimari, operatori estetici attenti solo alla crescita delle quotazioni, in un mercato nazionale ed internazionale, seduttivo e ben orchestrato. Comunque l’arte, con i suoi valori più autentici di scrittura cromatica, non è affatto scomparsa, perché non sono scomparsi gli artisti con i loro travagli interiori, con le loro emozioni, con le loro suggestive ricerche espressive. Sono pittori e scultori felicemente liberi, individualisti, che meditano sul segno e sulla forma plastica. Sono alchimisti della tavolozza e della materia, ricercatori di toni e di linee capaci di dialogare poeticamente.

Il pittore Roberto Bosco è uno di questi alchimisti del segno e del colore, ma con la capacità di vivere nel suo e nel nostro tempo, raffigurandolo in chiave intimista. Rappresenta, come artista, quello che ha sintetizzato in queste poche righe Ortega Y Gasset: “Ovunque si presentano le giovani muse, la massa le respinge. L’arte moderna fa sì che i migliori si conoscano nel grigiore della moltitudine e apprendano la loro missione che consiste nell’essere pochi.” La sua è una ricerca che analizza la condizione umana privata e collettiva, che medita su uno scenario inquietante, trasponendolo in una scrittura pittorica densa di significati. Nelle pagine che seguono è riunita una rassegna esaustiva dei suoi dipinti, eseguiti dagli anni Novanta a oggi con sensibilità e sapienza, ognuno dei quali è accompagnato con un mio breve commento esplicativo, che di ogni composizione testimonia la libertà del messaggio e la qualità esecutiva. Scrivendone, desidero sottolineare che si tratta di un maestro contemporaneo, dalla suadente  realizzazione, dove il percorso dei contenuti  non è mai disgiunto dalla qualità del costrutto pittorico.

Nel loro insieme, questi lavori sono la testimonianza di quanto Roberto Bosco sia portatore di una cultura legata al suo impegno di rivelare il dolore con amore. Questi volti, questi corpi in un interno, queste persone anonime affollate per strada, o su un mezzo di trasporto metropolitano, sono l’espressione poetica e immaginifica della  coscienza di un intellettuale che vive il suo tempo con lucida perspicacia. Se molta arte figurativa contemporanea è soprattutto formale, per cui la ricerca decade nel facile manierismo, al contrario, per Roberto Bosco, il punto di riferimento storico per quello che riguarda i messaggi contenutistici  rimane Gustave Courbet. Per il grande maestro francese dell’Ottocento, la pittura non poteva e non doveva prescindere dalla realtà umana; in questo contesto, è necessario  riprendere la sua definizione che compare come sottotitolo del suo bellissimo Atelier esposto al Louvre di Parigi: Allegoria realista. A modo suo, in un superbo spaccato sociologico della società del suo tempo, Courbet ha messo insieme, senza apparente nesso narrativo, i personaggi più disparati. A sua volta, e in chiave contemporanea, Bosco riprende lo stesso messaggio poetico: si tratta di un impegno ideale perseguito con acuta sensibilità, che si rivolge alla quotidianità del nostro esistere senza mai cadere in formalismi  estetizzanti, lasciando piuttosto emergere con chiarezza le sua ascendenza romantica. Per questo motivo, mi trovo ad affrontare il corpus di queste emozionanti narrazioni visive con una chiave critica e interpretativa assai vicina a quella Georg Lukacs, il quale, negli anni Cinquanta del secolo scorso, osservava che la falsità della falsa coscienza si illumina alle determinazioni più fondamentali di ogni esistenza e deve infrangersi contro le basilari  necessità dell’essere e del divenire oggettivo.

 Desidero, quindi, attenermi ora a una lettura critica dei contenuti rappresentati nelle opere di Bosco, rimandando l’analisi della qualità delle sue composizioni alle singole schede dei dipinti qui di seguito pubblicati.  Nel suo progredire, la ricerca pittorica di Roberto Bosco si svolge secondo una linea di tendenza del tutto coerente, al di là delle diverse scelte tematiche. Fra i  soggetti dei primi anni Novanta non manca, per esempio, un paesaggio invernale del tutto spoglio, dal titolo Val Padana (1990). Nella sua sintesi malinconica, l’opera è quanto mai inquietante, data l’assenza della figura umana. Ma il senso di solitudine non è tanto dovuto a quell’assenza, quanto al senso espressivo del vuoto, che nasce proprio dalla rappresentazione di una natura che non prelude ad alcuna immanente resurrezione. In realtà, si respira in questo lavoro il pessimismo ineludibile dell’autore. Eppure è certo che egli ama la natura e anche l’umanità, soprattutto quando egli la coglie nei suoi aspetti più allusivi, che permangono sempre come valore aggiunto nella sua rappresentazione. Ma è anche evidente che i protagonisti delle sue tele non sono mai presentati in una chiave glorificante, tutt’altro. Permane ovunque un senso di scoramento, come quello di certi maestri dell’espressionismo tedesco, che operavano negli anni della presa di potere del nazismo. E in definitiva: cosa chiede a un autore chi si aspetta un’emozione dall’arte figurativa, se non che renda comprensibile la sua visione soggettiva, e patente la sua sincerità emotiva, e originale la sua forma espressiva?  Quindi, il solo modo di considerare i lavori di Bosco di questo ultimo  decennio si riassume in poche parole: l’autobiografia di un’anima.

L’immaginazione poetica di Bosco appare come investita da attimi rivelatori, che provengono dallo scenario che lo circonda, che ci  circonda, fatto di rumori, colori, e prospettive che mutano nella fretta dei nostri spostamenti. Sono attimi di solitudine umana colta in presa diretta, senza infingimenti retorici, tramite passaggi cromatici e tonalità tutt’altro che ardenti, anzi, con pochissimi colori. Egli opta per campiture leggere, che non appesantiscono l’atmosfera dolente del racconto visivo, lasciando piuttosto in sospeso tutto un mondo di figure anonime  e silenziose alla quali nulla si contrappone, nemmeno la promessa di eventi liberatori, che potrebbero essere rivelati anche da una vaga presenza di luce.  Ma di luce qui non si tratta mai; la presenza del colore bianco è neutrale, solo funzionale al dialogo fra le altre tonalità cromatiche, stese da Bosco in modo motivato e suadente.

Con questi dipinti, il nostro pittore può essere accostato al gruppo di Corrente, sorto a Milano tra le due guerre, ovvero alla ricerca figurativa di taglio esistenziale degli  anni Settanta, rappresentata con poetiche e linguaggi differenti, da Gianfranco Ferroni e da Alberto Sughi, pittori della realtà e della solitudine. Rispetto al loro, il suo impegno è più allusivo,  quindi a suo modo assai complesso, quanto umanamente profondo e assolutamente non illustrativo; perché Bosco è anche un intellettuale che scrive e dipinge, seguendo la tradizione civile e culturale, che grazie a lui non è interrotta,  di personaggi come Carlo Levi, e Pier Paolo Pasolini che nella loro vita alternavano la scrittura alla pittura.

Ma Bosco, nel corso degli anni, ha sempre più privilegiato la pittura, grazie alla quale esprime al meglio la sua percezione del male di vivere, e dove i suoi protagonisti soccombono in silenzio all’oscurità che li circonda e li invade. Questo è dunque il significato peculiare del suo comporre, ossia l’immediatezza emotiva, la sua volontà e capacità di confrontarsi con la condizione umana. C’è anche un’accensione irrequieta, come nell’erompente e drammatica rappresentazione titolata La merce, un lavoro del 2005 dove è raffigurata una scena di degrado che, alla lontana, guarda alla poetica espressiva dell’inglese Francis Bacon. Si tratta di un’opera importante, a cui fa da contrappunto la struggente allegoria del 2010, Concerto per cornetta dedicata al cielo, che è rappresentazione assoluta dell’amore dell’artista per l’infinito, e rara a livello tematico e, per ora, del tutto inedita nel suo repertorio. Di fronte, comunque a questo quadro come a un altro, Pensieri azzurri, eseguito l’anno successivo, ci si rende conto di essere coinvolti emotivamente dalla forte personalità del’artista, che si muove unicamente in obbedienza ai propri impulsi creativi, alle proprie convinzioni, seguendo con straordinaria sicurezza una strada solo sua, legata ai contenuti, definita nelle proprie ragioni, e che sa esprimere le suggestioni che dall’esterno si imprimono nella sua mente. Non si può guardare la sua pittura se non attraverso il prisma della sua carica emotiva, per comprendere appieno dipinti dal forte impatto visivo come Gare San Lazare del 2005; come La condizione umana del 2011; come Genialità, del 1997.

Nella ricerca figurativa italiana contemporanea, Roberto Bosco ha una sua importante collocazione. Intanto il suo messaggio espressivo ha un modo di presentarsi e di reagire   a chi in arte sa solo portare messaggi estetici senza contenuti, producendo opere di pensiero pigro, di evasione e di conformismo. Prendiamo invece i suoi lavori: Uomo che guarda del 2006, oppure Parigi dopo la pioggia del 2009 sono splendide figurazioni, cariche di energia, dove tutto è espresso senza conflitti, ma con la malinconia dell’ineluttabile. Si deve quindi dargli atto che egli non cerca salvezza in un’Arcadia utopica, e nemmeno giustificazioni tramite giochi visuali metafisici. La sua scelta è di raffigurare un’umanità fuori dal tempo e dalla storia, e di credere nella pittura come strumento di rivelazione.

Nel corso del 2011 Bosco ha dedicato un’interessante serie di opere al tema della folla, affrontata come fosse fatta di replicanti in un percorso senza meta (Paris 2, del 2009 e Figure con striscia rossa, del 2010). Sono uomini che si incrociano senza guardarsi, senza sorridere, mai. Emblematico è qui l’uso imperante del colore nero, in un palcoscenico fantasmagorico di  apparenze, di ombre che hanno movenze meccaniche, da robot.

Lo stesso straniamento si trasferisce nell’intimità del rapporto di coppia, in Ultimo capitolo, del 2001, dove non ci sono più sentimenti da condividere, ma solo amara e impotente nudità.

Tutta la ricerca visiva di Bosco, è il risultato di una strutturazione formale ben definita e non solo in senso formale, ma anche nel senso preciso del rapporto che un’immagine stabilisce con un’altra, e quindi del significato che risulta da tale relazione. Di qui il pathos  partecipativo, che salda strettamente l’idealità con un’espressione, e con l’andamento ritmico della scrittura pittorica, che è suadente, creativo e cifra stilistica immediatamente riconoscibile di Roberto Bosco.

 

Paolo Levi

  DICEMBRE  2011

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