Testo Critico a cura del Prof. Claudio Strinati

Col tempo è emerso in Roberto Bosco un singolare e personalissimo talento narrativo. Talento, cioè, di un narratore invero molto singolare che racconta, in qualche modo, sempre la stessa cosa e ricomincia sempre da capo, immerso in un suo mondo che ha caratteristiche analoghe a una sorta di Gotham City (la tenebrosa città di Batman progressivamente messa a punto negli anni quaranta da Bill Finger come oscura metamorfosi di una New York mutante) in cui ci si aggira senza sosta e senza mai poter uscire da quei confini figurativi che

l’autore ha voluto conferire a quel luogo fantastico, dove si svolgono le avventure più sbalorditive ma come soffocati da una strana claustrofobia che dà l’idea di uno spazio minimo in cui, però, si svolgono eventi tumultuosi e frastornanti.

Il segno di Bosco sembra reinventare una tradizione fosca e fascinosa promanante da una commistione tutt’ altro che scontata tra il grande fumetto americano e quello italiano, nel suo versante, appunto narrativo e inquietante. È come se Bosco avesse fatto tesoro di una serie di spunti grafici che hanno permesso di creare, nel corso di anni indimenticabili e forse non più proponibili, protagonisti di storie a fumetti di magica suggestione e di sbalorditivi contenuti.

Una delle fonti più remote, che certo è impossibile dire se sia stata per Bosco consapevole o meno, potrebbe forse ravvisarsi nel Dick Tracy creato da Chester Gould nel 1931 e dominante l’ immaginario collettivo americano per tutto il quarto e quinto decennio del Novecento, anche se proseguito poi per lunghissimo tempo ancora. Sembrerebbe successivamente di ravvisare per Bosco suggestioni potenti che potrebbero provenire dall’universo del Corto Maltese di Hugo Pratt, che comincia nel 1967 e tocca il suo apice negli anni settanta.

Ma altrettanto probabile si direbbe il fascino esercitato sul nostro maestro dal ciclo di Sin City di Frank Miller, che vede il suo esordio nel 1991 per culminare nel prodigioso film del 2005 che si avvalse della regia di Roberto Rodriguez coadiuvato da Miller stesso e da Quentin Tarantino.

I quadri di Bosco, però, non citano mai nulla di preciso eppure si ha la sensazione di trovarsi di fronte a un frequentatore di echi lontani i cui sedimenti figurativi sono poi riscritti da una mente fiera e meditativa che assembla le situazioni e i personaggi come straniandoli da qualsivoglia spunto realmente narrativo per immobilizzarli, invece, sul limite di uno spazio e un tempo che tendono all’indefinito. Tendono persino alla sparizione, si sarebbe tentati di dire. Qui, nella mostra , compaiono i personaggi presentati quali classici ritratti come Celine, Al Pacino, Scorsese, Freud, tutta gente che scruta nella coscienza e resta immobile nel buio del quadro, anche loro in fase di sparizione. C’è molta cultura statunitense, e newyorkese per esattezza, che è latente nei quadri di Bosco e l’idea dei Trittici acuisce questa lettura in chiave cinematografica, ma di un’America di altri tempi più adatti a un deluso Francis Scott Fitzgerald o a un declinante Humphrey Bogart appena emerso da Casablanca. E proprio lo spirito di Humphrey Bogart, scorbutico e reticente, umanissimo ma scontroso, sembra calarsi nelle sagome misteriose di esseri umani che Bosco vede sempre come di sguincio o di passaggio.

Queste vicende non dichiarate che Bosco sembrerebbe raccontare, non cominciano e non finiscono ma sono soltanto frammenti, pulsioni. Non è ben chiaro se il tema di fondo sia l’indifferenza, la flemma, o non piuttosto un dolore chiuso, inesprimibile, amarissimo, che grava su tutte le situazioni raffigurate e, per lo più, su quasi inesistenti fisionomie. In certi momenti sembriamo tutti uguali, all’uscita di una stazione o nelle file che si formano e si disfano. Eppure non si direbbero zombie metropolitani i personaggi che Bosco richiama alla nostra attenzione. Uomini e donne senza volto, comunque in apparenza dei “diversi” che invece sono chiaramente gli uomini che vanno e che vengono, come li definiva Umberto Boccioni in una fase fatale della sua carriera.

Boccioni, che forse ancora oggi è in grado di lanciare messaggi e sollecitazioni a spiriti sensibili e attenti come certo è Bosco.

Tutti scaturiti da un’unica matrice.

Matrice che, tuttavia, potrebbe anche coincidere con l’inconoscibile inteso come ciò che si può rappresentare senza per questo poterlo spiegare e indagare, altrimenti saremmo sprofondati in una insuperabile contraddizione in termini, latente forse, esito comunque estremo della fervida creatività del nostro autore.

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